“I vampiri tra noi” (1960) di Roger Vadim

Qualche mese fa – un giorno di dicembre del 1959 – ero a tavola con degli amici in una trattoria romana. Raccontavo a uno di loro, brillante letterato e recente premio Goncourt, un sogno che avevo fatto la notte prima e che mi aveva molto impressionato. Da razionalista intransigente, R. V. [Roger Vailland] (ha le mie stesse iniziali) si diverte a trovare nei sogni un significato freudiano.

Io: “Ero in un teatro. Le poltrone erano state divelte dal pavimento, accatastate in mezzo alla platea e formavano un’enorme piramide disordinata. Pezzi di ferro erano sparsi dappertutto sul pavimento, spuntavano dovunque dalla moquette come una strana flora. Io mi accazzottavo con un amico. Cado, mi rialzo. Mi guardo le mani e mi accorgo che alla sinistra manca il mignolo. Me lo ero tagliato di netto, e neanche me ne ero accorto!”.

R. V.: “Complesso di castrazione?”…

Quali insospettati sviluppi potesse avere quell’interpretazione applicata al sogno di un uomo come me, non lo seppi mai: credo che in quel momento abbiano portato in tavola gli spaghetti alla carbonara. Ma quella sera stessa, mi pregarono, come al solito all’ultimo momento, di intervenire a un cocktail. Ci andai e mi fu presentato, tra gli altri, un tale che di certo non avevo mai visto prima in vita mia. Ma di lui mi ricorderò per un pezzo: gli mancava il mignolo della mano sinistra. Mi disse di averlo perso in Giappone durante la guerra. Premonizione? O ci si deve accontentare della spiegazione di R. V. e pensare a una banale coincidenza?

In margine alla nostra vita, esiste uno strano universo, complesso, indefinibile, e talora si effonde, dilaga. Qualcuno tra noi esiste – e con qual diritto? – che per un attimo ha intravisto, intuito, indovinato quell’universo. Non parlerò di sovrannaturale, mi ripugna: può darsi invece benissimo che questo universo misterioso altro non sia che un aspetto inesplorato, finora neanche concepibile, di quel pur angusto settore della vita corporea del quale, per un tempo brevissimo, abbiamo conoscenza. Di quel settore che l’uomo ha cercato di definire tridimensionalmente e che ogni giorno infrange leggi e norme parse fino a quel momento immutabili, intangibili. Questo universo liminare, gli occultisti hanno tentato di dominarlo: come gli scienziati hanno regolato il moto delle stelle e codificato l’energia. Ma i due universi, quello degli occultisti e quello degli scienziati, sono ancora diametralmente opposti. Spesso, tuttavia, i poeti hanno saputo attingere ispirazione ad ambo le fonti, contemporaneamente.

Di tutte le manifestazioni poetiche del mondo occulto, il mito del vampiro è quella che contiene più fascino, quella più ricca di stupore. Pare sia un mito nato tre secoli fa in qualche borgata di buzzurri della Boemia-Moravia, su una trama di storie di streghe e di beghe paesane. Certo, non è stato il famigerato libro di don Calmet a dargli origine. C’è persino chi attribuisce i segreti di questa strana forma di sopravvivenza a un gruppo di cristiani che avrebbero scoperto il mistero della resurrezione del Cristo e che, più di un millennio dopo, cacciati dalla Palestina, emigrarono nell’Europa centrale, e lì divennero despoti e signori praticando il rito rinnovatore del sangue e facendosi guardare con sospetto dai cittadini cui corvée e balzelli fornivano già sufficienti motivi di antipatia. Neanche agli egiziani sono mancati i loro bravi vampiri; e un po’ più in là se ne ritrovano anche fra cinesi e giapponesi. Ma li chiamavano con altri nomi. Far la storia del vampiro è impresa dubbia e pericolosa. Sarà meglio invece cedere il posto alle storie di vampiri. Io alle storie di vampiri non credo. Ma credo a ciò che le ha ispirate.

Roger Vadim

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